C’è una rete di spie che controlla da vicino persone e aziende: raccoglie materiale su di noi, su cosa facciamo al lavoro e nel tempo libero.
Siamo quasi tutti schedati, e le informazioni raccolte sono in grado di causare danni incalcolabili a persone e attività imprenditoriali, che vedono sfumare posti di lavoro, incarichi e commesse.
Raccogliere informazioni personali dannose per la nostra reputazione e renderle di pubblico dominio è illegale, perché viola la privacy.
Tuttavia, denunciare coloro che ci diffamano è impossibile, per un motivo assai semplice: quelle spie siamo noi stessi, attraverso l’attività che svolgiamo ogni giorno sul web, spesso con disarmante superficialità.
Principali responsabili di questa situazione sono i social network: spesso i nostri profili dicono troppo (e male) di noi, perché non siamo consapevoli della dirompenza delle informazioni che inseriamo e di come gli altri potranno utilizzarle contro di noi.
L’ha imparato, nel 2007, una certa Stacy, una laureanda statunitense che era giunta a un passo dal conquistare l’abilitazione all’insegnamento.
Non la ottenne, perché fu accusata – dall’Università che avrebbe dovuto rilasciarle l’abilitazione – di incoraggiare l’uso dell’alcool tra i giovani. A tradire la laureanda fu una foto inserita qualche anno prima nel suo profilo “Myspace”, ancora attivo: la ritraeva mentre beveva da un bicchiere di plastica, e la didascalia (scritta dalla stessa Stacy) era inequivocabile: “La piratessa ubriaca”.
Rimase piratessa ubriaca, Stacy, e non diventò insegnante.
Nessuno ha due vite, ma si cerca comunque di gestire in modo differente l’aspetto “pubblico” da quello “privato”.
La nostra condotta a lavoro, che deve essere coerente con lo stile aziendale, è solo una parte della nostra esistenza e quindi della nostra immagine, che però risente anche dei comportamenti che teniamo nella vita privata: soprattutto quando sono molto diversi dall’atteggiamento che assumiamo a lavoro.
Se così non fosse, il Garante per la protezione dei dati personali non avrebbe realizzato l’opuscolo “Social network: attenzione agli effetti collaterali” per metterci in guardia.
Siamo entrati ormai da anni nella cosiddetta “epoca digitale”, ma ancora molte, troppe persone non si rendono conto che la vita reale è intrecciata sempre più con la vita virtuale, vale a dire la nostra esistenza così come viene rappresentata sul Web.
Internet non dimentica. Occorre essere prudenti su tutto ciò che mettiamo online riguardo a noi, perché la maggioranza dei responsabili delle risorse umane o delle società di selezione fanno ricerche on line sulle persone e sempre più spesso si scartano potenziali aspiranti sulla base delle indagini compiute sul Web.
La prudenza non è mai troppa. Il legale di una multinazionale può avere tatuaggi su tutto il corpo, ma per una questione d’immagine dovrebbe evitare di esaltare questa sua passione nel proprio profilo Facebook: sarebbe giudicato solo sulla base di questa.
Un professionista dovrebbe fare a meno di pubblicare nel proprio blog commenti negativi su aziende e persone con cui lavora.
Negli Stati Uniti diversi impiegati sono stati licenziati sulla base dei loro commenti su Twitter, riferiti all’azienda da cui dipendevano e ai propri colleghi.
Anche le imprese devono prendere consapevolezza che la propria presenza su Internet non può essere ridotta al sito aziendale: è necessario un controllo costante della propria reputazione nel Web, può essere indispensabile tenere sotto controllo alcuni blog per replicare a eventuali commenti lesivi dell’immagine aziendale.
Gruppi di blogger hanno preso di mira diverse aziende, accusandole di realizzare prodotti o servizi scadenti o, addirittura, di provocare danni ambientali.
Per questo, negli Stati Uniti è nata una figura di professionista, il “reputation manager”, che ha il compito di curare la reputazione sul Web di aziende, professionisti e privati.
Qui da noi, sarebbe già un grande passo in avanti se almeno si prendesse coscienza che su Internet non abbiamo una seconda vita, bensì l’immagine pubblica dell’unica che abbiamo.
Magari, metteremmo a tacere i nostri peggiori biografi: noi stessi.